Secondo la versione più famosa, la pizza margherita sarebbe addirittura stata inventata esplicitamente per la Regina Margherita di Savoia, che l’avrebbe preferita tra le altre a lei sottoposte anche per la conveniente combinazione di colori. Ma la storia sembra un po’ troppo perfetta per essere vera. E infatti, nonostante spesso se ne parli come di un episodio storico, la verità ha molto più a che fare col marketing che con l’amor di patria.
La versione più comune della storia è questa. Giugno 1889: Re Umberto I e sua moglie Margherita si trovano alla reggia di Capodimonte. Annoiati dall’alta cucina francese, cioè quella dei sovrani d’Europa, chiesero a un plebeo popolano di cucinare la pizza, specialità locale. Il miglior pizzaiolo di Napoli, tale Raffaele Esposito, arrivò a Palazzo o, a seconda di chi racconta, li ospitò al suo ristorante. Qui preparò tre pizze, e quella condita al tricolore fu nettamente preferita dalla regina. Questa avrebbe fatto scrivere una nota di ringraziamento, acconsentendo all’uso del suo nome per chiamare la pizza coi colori dell’Italia.
Scoperta la cottura sulla pietra, l’uomo non ha potuto fare altro che scoprire anche la pizza. Già, la storia di questo piatto, diventato nel tempo marchio di fabbrica della cucina italiana (e napoletana in particolare) ha origine fin dall’alba dei tempi.
In quel periodo, nel Vicino Oriente, gli uomini, nata da poco l’agricoltura, capirono che cuocere sulla pietra polente di cereali tostati e macinati o di pane azzimo fosse un buon modo per mangiare qualcosa di davvero gustoso e originale. Grazie poi agli antichi Egizi, scopritori del lievito, la storia della pizza diventa tutta in salita. Con la lievitazione gli impasti di cereali schiacciati o macinati diventano, dopo la cottura, morbidi, leggeri, più gustosi e digeribili. E così si diffonde il pane.
Inventato il pane, il percorso a tappe della pizza continua nell’antica Roma. Qui, i contadini, dopo aver imparato ad incrociare i diversi tipi di farro conosciuti creando la farina (il suo nome deriva da “far”, che in latino vuol dire proprio farro), impastano la farina di chicchi di frumento macinati con acqua, erbe aromatiche e sale. E poi pongono questa focaccia rotonda a cuocere sul focolare, al calore della cenere. Bene: i napoletani non la prenderanno nel migliore dei modi, ma sono stati i romani ad utilizzare veri e propri dischi di pane per contenere pietanze sugose. Pizze rotonde, più o meno. Ma con gradi di parentela molto, molto lontani dalle pizze che si possono gustare oggi all’ombra del Vesuvio. Mancano, infatti, ancora tantissimi ingredienti, molti dei quali sconosciuti fino a secoli e secoli dopo.
Nel VII dopo Cristo, con l’arrivo in Italia dei Longobardi, inizia a circolare un nuovo vocabolo gotico-longobardo: “bizzo”, talvolta detto “pizzo”. In tedesco “bizzen”, ovvero morso.
Verso l’anno Mille si trovano i primi documenti ufficiali col termine “pizza”. Come in uno datato 1195 e redatto a Penne, in Abruzzo. O quelli della Curia Romana del 1300, dove si parla di “pizis” e “pissas” riferendosi ad alcuni tipici prodotti da forno, di quel periodo, nel centro-sud della penisola. Abruzzo e Molise su tutti.
Nel 1535, finalmente, nella sua “Descrizione dei luoghi antichi di Napoli”, il poeta e saggista Benedetto Di Falco dice che la “focaccia, in Napoletano è detta pizza”. Così diventa ufficiale: anche in Campania l’evoluzione della pizza non si è mai fermata. E la tradizione neanche. Come quella della tipica schiacciata di farina di frumento impastata e condita con aglio, strutto e sale grosso continua a incontrare il favore delle popolazioni del Meridione.
Nel 1600 siamo davvero agli inizi della storia moderna della pizza. Pasta per pane cotta in forni a legna, condita con aglio, strutto e sale grosso, oppure, nella versione più “ricca”, con caciocavallo e basilico. Con la scoperta dell’America, poi, arriva il pomodoro anche in Italia e tutto prende un sapore diverso. Il pomodoro fu dapprima usato in cucina come salsa cotta con un po’ di sale e basilico, mentre più tardi qualcuno ebbe l’intuizione di utilizzarlo, inventando, così senza volerlo, la pizza come la conosciamo oggi. Pur senza mozzarella, che invece completa questa storia solo nel 1800. Lo stesso secolo in cui, ormai, la pizza è diffusissima nel popolino, ma non solo. A gustarla volentieri sono anche baroni, principi e regnanti, tanto che finisce sulle tavolate durante i ricevimenti dei Borboni, mentre Ferdinando IV la fa cuocere nei forni di Capodimonte.
La prima ricetta della pizza come la conosciamo oggi è riportata in un trattato dato alle stampe a Napoli nel 1858, che descrive il modo in cui in quegli anni si prepara la “vera pizza napoletana”. Quando la città era ancora la capitale del Regno delle Due Sicilie, Francesco De Bourcard in “Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti” arriva perfino a citare una sorta di pizza Margherita ante litteram, con mozzarella e basilico. Il pomodoro, poi, è ancora opzionale, mentre per i condimenti, si legge, si può usare “quel che vi viene in testa”. Ma verso la fine dell’Ottocento la pizza col pomodoro e mozzarella arriva addirittura in America grazie agli italiani che emigrano a New York e viene fatta esattamente come ne capoluogo partenopeo.
Dopo che i pizzaioli napoletani avevano diffuso svariate qualità di pizza tra la popolazione, si arriva alla sua approvazione ufficiale nel 1889, in occasione della visita a Napoli degli allora sovrani d’Italia re Umberto I e la regina Margherita. E questo è davvero un capitolo prezioso per la storia della pizza. Durante la passeggiata nella città campana, i regnanti furono accolti da Raffaele Esposito, il miglior pizzaiolo dell’epoca che realizzò per loro tre pizze classiche: la pizza alla Mastunicola, in dialetto, del Maestro Nicola (strutto, formaggio, basilico), la pizza alla Marinara (pomodoro, aglio, olio, origano) e la pizza pomodoro e mozzarella (pomodoro, olio, mozzarella, origano), realizzata in onore della regina Margherita ed i cui colori richiamavano intenzionalmente il tricolore italiano. La sovrana apprezzò così tanto quest’ultima da volerne ringraziare ed elogiare l’artefice per iscritto. E l’unico modo per contraccambiare il gesto da parte del pizzaiolo fu quello di dare il nome della regina alla sua creazione culinaria: “Pizza Margherita”.
Tra Ottocento e Novecento, parlare di pizza è ormai cosa normalissima. E nel tempo ne nascono varianti di qualsiasi genere, per tutti i gusti. La seconda ondata di diffusione, ad ogni modo, si ha dopo la Seconda Guerra Mondiale. La pizza esce dai confini del meridione d’Italia per sbarcare al nord e col boom industriale nel triangolo Milano, Torino e Genova migliaia di emigranti si spostano con le loro famiglie con i modi, gli usi e costumi a loro pertinenti. Incominciano pian piano a fare le prime pizze per i compaesani e via via con il successo ottenuto anche per la gente del posto. Negli anni Sessanta, poi, le pizzerie arrivano praticamente in tutto il Paese. E nel giro di qualche anno, in tutto il mondo. Dalla Cina al Medio Oriente, dall’Europa dell’est all’America del sud.
Quando fa la sua prima apparizione la pizza napoletana non è dato saperlo con certezza, tuttavia si può presumere tra il XVII e il XVIII secolo, epoca in cui si diffuse il pomodoro, suo elemento distintivo.
Gli storici ritengono che la prima vera pizza napoletana fosse quella che noi oggi chiamiamo “marinara” condita con aglio, olio, pomodoro e origano. Ingredienti semplici e di uso comune, per un piatto che resterà per lunghissimo tempo l’alimento del popolo e lo street food per eccellenza.
“Cibo per poveri, pietanza per frettolosi, (…) da mangiare così, magari in piedi e magari a un angolo di strada, sotto gli occhi di tutti” come scrive G. Porcaro nel suo libro Sapore di Napoli. Storia della pizza.
E di come la pizza fosse cibo del popolo, lo racconta bene Alexandre Dumas, che ricorda come i “lazzaroni” (termine con cui all’epoca si indicava il plebeo napoletano) mangiassero la pizza in inverno e l’anguria in estate:
“La pizza è nutrimento invernale. Il primo maggio cede il posto al cocomero. Ma sparisce solo la mercanzia, il mercante rimane lo stesso. […]
Nel giorno indicato il pizzaiolo si fa mellonaro. Il mutamento non si estende alla bottega, che resta la medesima.”
Le pizzerie dell’epoca non erano luoghi pensati per il consumo in loco ma angusti laboratori con un bancone e un forno a legna in cui venivano prodotte pizze destinate alla vendita da asporto o ai venditori ambulanti. Questi ultimi giravano per i vicoli con in testa la “Stufa”, un contenitore di rame od ottone che serviva a mantenere calde le pizze: analogamente a quanto fanno ora i rider, con i contenitori termici sulle spalle per le vie delle nostre città.
Come si svolgeva la giornata dei pizzaioli ce lo racconta Matilde Serao nel Ventre di Napoli: la notte producevano un grande numero di pizze che la mattina affidavano ai garzoni o ai rivenditori i quali provvedevano alla distribuzione agli angoli delle strade. Una volta terminate, i pizzaioli ne facevano altre e così via fino a sera. Le pizze, quindi, non venivano cotte “a richiesta” come ora ma, similmente al pane, prodotte in grandi quantità. La pizza quindi veniva consumata anche dopo alcune ore dalla cottura, diversamente da oggi.
E le pizzerie? Fino alla metà del ‘700 non ve n’è traccia. E le prime che compaiono sono luoghi piuttosto sudici frequentati dalla plebaglia, ben lontane dai luoghi di ritrovo conviviali ai quali siamo abituati. Per la loro diffusione lungo tutto lo stivale bisognerà aspettare il ‘900 e il ritorno degli emigrati dagli Stati Uniti, ma di quello vi racconterò tra poco.
La pizza, quale alimento del popolo, fungeva anche da termometro dell’andamento dei mercati: il suo prezzo variava a seconda del costo delle materie prime e della freschezza degli ingredienti.
Ecco ancora Dumas: “Quando la pizza ai pesciolini costa mezzo grano, vuol dire che la pesca è stata buona; quando la pizza all’olio costa un grano, significa che il raccolto è stato cattivo”.
Per sfamare i più poveri venivano vendute anche pizze “vecchie” di giorni, il cui prezzo era ovviamente molto più basso rispetto a quello iniziale, ed esisteva anche la cosiddetta “pizza a oggi otto” che si poteva pagare una settimana dopo. Insomma, la pizza oltre che alimento del popolo era mezzo di sostentamento delle masse più povere.
Con l’Unità d’Italia, nel 1861, inizia un processo di nazionalizzazione in cui il Nord fa propri quegli usi e costumi tipici del Sud trasformandoli in simboli dell’italianità. Così la pizza oltrepassa i confini della Campania e inizia ad essere conosciuta nel resto della nazione grazie anche ai nobili che, stanchi della cucina francese trovano in quel cibo popolare una gustosa trasgressione.
”L’Arte tradizionale del pizzaiuolo napoletano” è stata riconosciuta, nel 2017, come parte del patrimonio culturale dell’umanità, trasmesso di generazione in generazione e continuamente ricreato, in grado di fornire alla comunità un senso di identità e continuità e di promuovere il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana, secondo i criteri previsti dalla Convenzione Unesco del 2003.
Si tratta di una pratica culinaria che comprende varie fasi, tra le quali la preparazione dell’impasto, un movimento rotatorio fatto dal pizzaiolo e la cottura nel forno a legna.
Una tradizione, quella della pizza napoletana, trasmessa da Maestro ad apprendista, all’interno delle botteghe, oltre che molto diffusa anche a livello domestico, e che ha una precisa funzione sociale di aggregazione e condivisione.
Come si legge sul sito dell’UNESCO “la preparazione della pizza alimenta la convivialità e lo scambio intergenerazionale e assume il carattere di spettacolarizzazione con il Pizzaiolo al centro della bottega, mentre mostra la sua arte”.
L’Arte è nata a Napoli, dove vivono e lavorano circa 3000 pizzaiuoli, suddivisi in tre categorie in base all’esperienza e alle capacità.
Il riconoscimento dell’UNESCO porta la pizza, cibo tra i più amati e consumati al mondo (ogni anno se ne consumano 5 miliardi!), nell’Olimpo della cucina nazionale e internazionale e identifica l’arte del pizzaiolo napoletano come espressione di una cultura che si manifesta in modo unico, perché la manualità del pizzaiolo non ha eguali e fa sì che questa produzione alimentare possa essere percepita come marchio di italianità nel mondo.
Poesia “A Margherita” di Gennaro Esposito. Testo affisso nel locale della famosa pizzeria “Da Michele”- Napoli
‘A quando sta ‘o benessere
‘a gente pensa a spennere
e mo’ pure o’ chiù povero
‘o siente ‘e cumannà
Voglio una pizza a vongole
chiena ‘e funghette e cozzeche
con gamberetti e ostriche
d’o mare ‘e sta città.
Al centro poi ce voglio
n’uovo datto alla cocca
e co liquore stok
l’avita annaffià.
Quando sentenno st’ordine
ce venne cca’na stizza
pensano ma sti pizze,
songo papocchie o che.
Ca se rispetta ìa regola
facenno ‘a vera pizza
chella ch’è nata a Napule
quasi ciennt’anne fa.
Chesta ricetta antica
si chiamma Margherita
ca quanno è fatta a arte
po ghi nant’a nu re.
Perciò nun e cercate
sti pizze complicate
ca fanno male ‘a sacca
e ‘o stommaco patì.